Voglio dare il la a questa sezione del sito raccontando come, e per merito di quale automobile, è nata in me la passione per i vecchi motori che poi è cresciuta insieme con la gioia di frequentare questo nostro mondo ed i suoi abitanti.
Nel mio caso tutto ha inizio nei primi anni ’60 quando, bambino delle scuole elementari, vado spesso a giocare con mio cugino nell’enorme giardino dei nonni: là, sotto un paio di ippocastani, giace una Balilla tre marce, allora già trentenne, in condizioni piuttosto precarie.
Particolarmente curiosa la sua verniciatura: sopra una mano di “fondo” applicata a pennello e di un particolarissimo colore rosato sono stati dipinte ad olio fedeli riproduzioni di quadri d’autore assieme con ritratti di maschere della tradizione e motti famosi del tipo: “eppur si muove”… e simili facezie.
Motivo di tale allestimento, il desiderio di un gruppo di giovanotti della zona di avere un mezzo con il quale partecipare alle prime edizioni del dopoguerra del Carnevale di Cento (FE), un evento diventato poi abbastanza rinomato; durante le giornate di Corso Mascherato la Balilla diventa una sorta di contenitore dove stivare caramelle e giocattoli da lanciare ai bambini durante il “gettito”.
Autore del capolavoro pittorico…mio padre, medico di famiglia con l’hobby della pittura, che stabilisce, quale compenso, la consegna della Balilla quando il “gioco” si sarebbe concluso.
I miei pomeriggi estivi di avventura, sempre in compagnia del cugino, coincidono con il periodo intercorrente tra gli avvenimenti accennati: la fine dell’utilizzo goliardico e la consegna al “pittore” con conseguente inizio del ripristino (il termine “restauro” sarebbe eccessivo); di quei giorni ricordo i brandelli di tetto sfondato che mi sfioravano la testa, la tappezzeria in tela blu come le tute degli operai, lo stemma di San Cristoforo in alluminio avvinghiato al piantone dello sterzo e le tante gare che abbiamo disputato, alternandoci al volante ma senza mai muoverci di un millimetro.
E’ vero che un destino agonistico attendeva questa Balilla ma allora ne noi ne lei potevamo saperlo ed è una vicenda che racconterò più avanti.
Proseguiamo ora invece con le operazioni di recupero che monopolizzano piacevolmente le conversazioni a tavola per parecchi mesi; del coordinamento delle operazioni si occupa mio fratello, allora già patentato: inizia sulla sua Fiat 600 avorio, molto spesso con me a fianco, a battere vecchi ricambisti e case coloniche alla ricerca dei pezzi mancanti.
Impegnativo fu il raggiungimento dell’accordo sul colore da dare al corpo vettura (al fatto che i parafanghi dovevano essere neri ci si era arrivati): colore che venne scelto dopo il solito consulto famigliare sulla base dei nostri gusti dato che qualsiasi tentativo di individuare quello originale in qualche recondito anfratto della carrozzeria risultò vano; per la verità la spinta decisiva verso il verde scuro viene dal fatto che in quegli anni una tonalità molto simile a quella originale è offerta nella gamma Fiat per la nuovissima 1300 rendendone facile il reperimento.
Un altra vertenza che occupa a lungo l’intera famiglia è il recupero del giusto bauletto che mio padre voleva assolutamente che corredasse la vettura finita; ci furono parecchi falsi allarmi, molte segnalazioni che poi si rivelarono relative a bauletti di Fiat 514, Alfa Romeo 1750 o addirittura Lancia Dilambda (non è millanteria, ricordiamoci che siamo nei primi anni sessanta del secolo scorso): il rimpianto è non averli acquistati e conservati tutti; in ogni modo finalmente arriva quello giusto che, adeguatamente risanato e rinforzato, viene collocato al suo posto. A questo punto un particolare rivela lo spirito con cui spesso ci si accostava a queste operazioni in quegli anni: la lucida superficie nera del bauletto rappresenta una tentazione irresistibile per mio padre, sempre irriducibile “pittore”, che non si accontenta di avvitarci sopra la targa (orrore!) ma vi aggiunge ai lati due ovali dipinti: uno bianco con la I nera, quasi dovessimo andare all’estero con la Balilla ed uno rosso con sopra in oro la scritta “1933”, anno di nascita della vettura (doppio e triplo orrore!!).
Neanche per la fanaleria necessaria alla circolazione si va molto per il sottile: i fanalini anteriori della Fiat 600 prima serie, le lucciole laterali della 500D e componenti posteriori da rimorchio industriale vengono imbullonati senza tanti complimenti ai poveri parafanghi della Balilla che vengono crivellati da fori di vario diametro e… nessuno che dicesse niente!
Per la tappezzeria ci fu il modo di recuperare un brandello di quella originale che testimoniò trattarsi di quella della Balilla “normale”e con questo pezzetto di stoffa ci presentiamo presso un magazzino all’ingrosso di Bologna dove troviamo un tessuto da cappotto somigliantissimo all’originale come trama e disegno ma di un improbabile colore verde scuro; va bene lo stesso: al confezionamento ci avrebbe pensato la mamma, al pavimento si sarebbe incollata una bella moquette da arredamento ed il gioco è fatto.
Balilla pronta: l’originalità lascia a desiderare ma l’affidabilità è totale tanto che papà ne fa la sua utilitaria che userà per anni per le visite domiciliari e per andare in campagna; l’uso quotidiano di questa auto è oggi ulteriore conferma della cristallina trasparenza della vita di quell’uomo perché, circolando con quella macchina, tutti sapevano sempre dov’era; è una riflessione che mi raggiunge in questo momento e spero mi sia consentita quale tributo alla figura del mio caro genitore in questo periodo contraddistinto da costumi meno abbottonati di quelli di allora.
D’inverno il riscaldamento consisteva in un plaid attorno alle gambe anche quando, dopo le frequenti nevicate degli anni ’60, la Balilla diventa la motrice di uno slittino di legno con me sopra che viene assicurato al paraurti posteriore tramite una lunga fune: un’operazione potenzialmente pericolosissima ma che, grazie alla guida dolce di papà ed all’assenza totale di traffico, non ha mai dato luogo ad inconvenienti; è vero che a volte vedevo la lama lucida avvicinarsi velocemente alla mia faccia ma bastava puntare i piedi e tutto andava a posto.
La carriera di fedele servitrice della Balilla si interrompe alla metà degli anni ’70 sostituita da una Fiat 500D, usata ma freschissima, che ne prende il posto.
Fortunatamente la vecchia amica non viene venduta ma viene messa a riposo per un letargo che durerà tredici anni.
Le passioni dei vent’anni, la moto innanzi tutto, ma anche le prime storie sentimentali, mi distraggono dalla Balilla ma non mi impediscono, tuttavia, di farle periodicamente girare il motore tramite la manovella evitando così, complice anche la collocazione su pile di mattoni che ne consentono il sollevamento da terra, eccessivi danni derivanti dall’inattività.
E’ alla fine degli anni ’80 che, lasciata da tempo la passione per la moto contro un albero, nasce la voglia, condivisa anche da mia moglie, di riportare la Balilla in strada. Un simpatico meccanico “di campagna” vicino alla pensione diventa il “mago” che rende possibile questa resurrezione in tempi piuttosto brevi; durante questo periodo molte ingenuità di restauro che abbiamo descritto vengono corrette ed è con una vetturetta più che decorosa che siamo pronti per la stagione 1988 che abbiamo molto goduto assieme ai nuovi amici del club Officina Ferrarese al quale avevo avuto cura di iscrivermi.
La primavera del 1989 è quella della Certificazione d’Identità A.S.I. che allora si chiamava ancora Omologazione: la classificazione non è particolarmente lusinghiera (il pavimento rivestito in moquette presenta il conto) ma l’esperienza umana è molto positiva; faccio conoscenza con gli Esaminatori, uno dei quali è il mai abbastanza ricordato Giorgio Guiduzzi, che mi paiono come la quintessenza del sapere automobilistico e suscitano in me enorme ammirazione.
C’è un motivo impellente per ottenere l’omologazione: fin dall’inverno precedente si era deciso, con un amico, di partecipare alla Winter Marathon, che da spettatori ci aveva stregato, e quindi quel documento è necessario.
Eccoci, quindi, alla partenza dell’edizione 1990, una delle più “innevate” della storia di questa classica gara, con il nostro bel numero 4 alle portiere, preceduti da una Bugatti di un concorrente olandese: emozione indimenticabile! Come tutta questa esperienza, peraltro: si cercava di recuperare in discesa, praticamente senza freni, il tempo perso in salita a causa dei soli 22CV del nostro infaticabile motorino che ci costringono a percorrere lunghi tratti in prima a passo d’uomo; sulle cime più alte come il Pordoi od il Sella, ci ritroviamo, è vero, a zigzagare tra tante Flaminia, Giulietta e Porsche bloccate dalla neve mentre la Balilla avanza inesorabile nella sua incredibile lentezza. Nei successivi fondovalle si stenta però a raggiungere i 70 km/h e diventiamo così, in breve, la “mascotte” della manifestazione, salutati ed incoraggiati a colpi di clacson e braccia alzate da chi ci sfreccia accanto risorpassandoci (tutti): concludiamo dopo quindici ore e mezzo invece delle dodici previste ma comunque classificati e soddisfattissimi dell’impresa tanto da replicarla l’anno successivo quando la Balilla, senza la neve, ci porta al traguardo nei tempi previsti nonostante i duemila rabbocchi del radiatore a causa della guarnizione della testa bruciata.
A questo punto, una volta effettuata la riparazione, la Balilla viene messa in vendita per investire il ricavato su una vettura più moderna e potente in funzione di questo mio desiderio di un nuovo modo di vivere questa passione ormai totalizzante.
Così, come in tutte le storie sentimentali più coinvolgenti, anche in questa vicenda c’è spazio per il tradimento da me scelleratamente perpetrato nei confronti di questa allegra e simpatica automobile che, scoprii poi con un groppo alla gola, era progressivamente (ed inevitabilmente) diventata un componente della famiglia quasi come una cara cagnetta.
So, per fortuna, che è andata a stare bene, in mano ad un altro appassionato che, così mi raccontò, la desiderava da molti anni e, finalmente sistemate tutte le altre incombenze famigliari, poteva togliersi questa soddisfazione; lo saluto caramente sperando che un giorno o l’altro legga queste righe.
Ecco, così condensata per tentare di non annoiare troppo il lettore, la storia della nascita della mia passione; oggi che ho ormai raggiunto l’età della pensione questo hobby (tentiamo di chiamarlo così per sdrammatizzare) e tutti gli amici che ho incontrato in questi anni, in virtù di esso, mi riempiono piacevolmente la vita.
A tutti Voi cari complici, che percorrete la mia stessa strada, un affettuoso colpo di fari in attesa delle vostre storie.